Nei primi giorni di agosto sono stato invitato da alcuni amici a discutere del ruolo del silenzio nella comunicazione. Una dimensione che ultimamente è sempre più esplorata perché intriga e pone domande di natura pratica e filosofica. Mi sono interrogato sulla sua reale esistenza. Il silenzio in quanto dimensione pratica – quella dimensione che risulta ai nostri sensi ed alle nostre esperienze collettive – può essere negata o affermata al tempo stesso. Il silenzio ha un suo rumore di fondo, noi umani ne percepiamo solo una parte, quella che risulta alla nostra capacità sensoriale e quindi alla nostra esperienza.
Tornando alla dimensione astratta del silenzio, mi è venuto in mente il gioco che facevamo da bambini, il se fosse. Se il silenzio fosse un segno? La neurofisiologia ha constatato che il nostro cervello elabora prima i contorni delle immagini per poi passare alle superfici interne che potremmo definire come il contenuto. I profili sono il primo passo per percepire l’insieme delle cose e dell’ambiente che ci circonda. Il nostro cervello, quindi, percepisce prima i contorni, le linee, dritte o curve che siano. Infatti nell’ambiente naturale o artificiale ritroviamo tutte le forme primarie che ci servono per le nostre rappresentazioni mentali e fisiche. Il silenzio è quindi un confine, un tratto temporale che definisce il confine delle parole. Un confine tra una parola e l’altra, tra una nota e l’altra, tra il rumore del tuono e la suo eco. Una discontinuità che conferisce e permette la rappresentazione e la formazione del senso.
E se invece il silenzio fosse un colore, a quale corrisponderebbe? Al bianco. Il bianco inteso proprio come colore. Nella registrazione audio, nella tecnica del doppiaggio o nello speakeraggio, si usa chiamare la pausa bianco. Ma gli stessi tecnici del suono amano sporcare questo bianco con un rumore di fondo, in qualche maniera esiste un suono del bianco, una voce del silenzio parlante.
Se il silenzio fosse un tempo? Sarebbe il tempo aoristo del greco antico. L’aoristo si distingue lievemente ma significativamente dal tempo presente. Si tratta di un tempo sospeso sopra ogni connotazione temporale. Non un presente, non un passato, ma un’azione che si compie e basta. L’aoristo non si pone la questione del quando, del prima o del dopo, ma del compimento dell’azione stessa. In qualche modo sembra suggerirci l’essenza, l’assoluto.
Il silenzio somiglia molto alla punteggiatura che interrompe la scriptio continua del greco rendendo possibile e facile la comprensione del testo scritto. E infine mi sono detto: e se il silenzio fosse una lingua? Sarebbe il greco. Il greco antico è muto, non sapremo mai come si pronuncia una parola in greco per il fatto stesso che è una lingua scomparsa insieme ai suoi parlanti. Abbiamo testimonianza della sua esistenza attraverso i testi che sono giunti fino a noi, possiamo leggerli, studiarli ma non abbiamo ereditato una descrizione sulla sua pronuncia, non sapremo mai come “suona” quella che molti definiscono la lingua geniale.
Il mio gioco del se fosse finisce qui, ma potrebbe continuare, fatelo voi.